Battaglie In Sintesi
350 a.C.
Senatore e militare romano. Appartenente alla plebe, fu console a Roma nell'anno 359 a.C. (secondo la Cronologia Varroniana) avendo come collega Gneo Manlio Capitolino Imperioso. In qualità di console sconfisse un esercito di Tiburtini, che si erano avvicinati a Roma, con l'intento di sferrare un attacco a sorpresa. Verso il termine del suo mandato i Tarquini invasero i territori romani al confine con i territori Etruschi (Tito Livio, Ab Urbe condita libri, VII, 12). Fu eletto console per la seconda volta nel 356 a.C. insieme al collega console Marco Fabio Ambusto. Popilio guidò la vittoriosa campagna militare contro i Tiburtini. Fu eletto console per la terza volta nel 350 a.C. insieme al collega console Lucio Cornelio Scipione. A Popilio fu affidato il comando unificato della campagna contro i Galli, poiché il suo collega era caduto malato. I romani condotti da Popilio, seppur ferito ad una spalla, ebbero la meglio sui Galli in virtù della loro superiore organizzazione militare. Per questo successo, Popilio ottenne il trionfo a Roma. Nel 348 a.C. fu eletto console assieme a Marco Valerio Corvo. Durante questo consolato fu stipulato il secondo trattato tra Roma e Cartagine.
Fu interrex nel 352 a.C. e successivamente fu eletto console nel 350 a.C. insieme al collega console Marco Popilio Lenate. A Popilio fu affidato il comando unificato della campagna contro i Galli, poiché Lucio Cornelio era caduto malato. Nello stesso anno fu scelto come magister equitum dal dittatore Lucio Furio Camillo.
Marco Popilio Lenate fu il console plebeo, Lucio Cornelio Scipione il patrizio. Anche la sorte volle rendere più illustre il console plebeo. Infatti, quando arrivò la notizia che un poderoso esercito di Galli si era accampato in territorio latino, il console Scipione era gravemente malato: fu così che il comando delle operazioni venne assegnato a Popilio con un provvedimento straordinario. Egli, arruolato senza indugi un esercito, dato a tutti l'ordine di trovarsi in armi al tempio di Marte fuori della porta Capena, e ai questori di trasportare là le insegne dall'erario, completò quattro legioni e affidò il numero di uomini in eccesso al pretore Publio Valerio Publicola, sollecitando il senato ad arruolare un secondo esercito che facesse da riserva in previsione di eventuali emergenze belliche. Poi, una volta esauriti di persona tutti i preparativi, partì alla volta del nemico. E per conoscere l'entità delle forze nemiche prima di doverle saggiare nel corso di uno scontro decisivo, occupò la collina più vicina all'accampamento dei Galli e cominciò a scavarvi una trincea. I Galli, bellicosi e per natura sempre smaniosi di arrivare allo scontro armato, non appena videro in lontananza le insegne romane, si schierarono subito in assetto di guerra come se avessero dovuto immediatamente ingaggiare battaglia. Ma poi, rendendosi conto che i Romani non accennavano a scendere in pianura bensì cercavano di proteggersi non solo sfruttando la posizione elevata ma anche con l'ausilio di una trincea, supposero che i nemici fossero in preda al panico e, nel contempo, che risultassero ancor più vulnerabili proprio perché impegnati nella costruzione. Per questo attaccarono con urla spaventose. I Romani, senza interrompere il lavoro (nel quale erano occupati solo i triarii), cominciarono a combattere con le file degli hastati e dei principes, piazzate all'erta con le armi in pugno, davanti ai compagni impegnati nei lavori.
Al di là dell'effettivo valore, ciò che li aiutò fu anche la posizione sopraelevata: le loro aste e i loro giavellotti, invece di andare a vuoto come spesso succede quando vengono lanciati su un terreno pianeggiante, centravano sempre il bersaglio, per il peso stesso che li portava a conficcarsi. E i Galli, schiacciati dai proiettili che li raggiungevano passandoli da parte a parte, oppure si conficcavano negli scudi appesantendoli, dopo essere avanzati di corsa lungo l'erta del monte, in un primo tempo si fermarono, disorientati; poi - quella semplice esitazione aveva ridotto il loro slancio e dato animo agli avversari - ricacciati indietro, presero a ruzzolare l'uno sull'altro, e questo provocò un massacro ancora più cruento di quello inferto dai colpi nemici. Furono più gli uomini calpestati dalla massa che rovinava verso la pianura dei compagni caduti in combattimento. Eppure i Romani non erano ancora sicuri di aver vinto: una volta scesi sul pianoro, c'era ad aspettarli un nuovo scontro. Infatti la grande massa dei Galli, assorbito un simile colpo, si risollevò come fosse stata un'armata fresca, incitando gli uomini integri a lanciarsi contro il nemico vittorioso. I Romani rallentarono la corsa e si fermarono, perché erano costretti ad affrontare una nuova battaglia allo stremo delle energie, e per il fatto che il console, essendosi incautamente esposto in mezzo alle prime file, era stato colpito: un giavellotto gli aveva quasi trapassato la spalla, costringendolo a ritirarsi momentaneamente dalla battaglia. E già per quella pausa la vittoria stava per sfumare, quand'ecco che il console, tornato in prima linea con la ferita bendata, disse: "Perché state fermi, soldati? Il nemico con cui avete a che fare non sono né i Latini né i Sabini, popoli che voi avete superato in guerra trasformandoli da nemici in alleati; è contro belve feroci che abbiamo sguainato le spade: dobbiamo versare il loro sangue o essere pronti a dare il nostro. Li avete respinti dal vostro accampamento e ricacciati giù lungo le pendici scoscese del monte; state camminando sui loro cadaveri: riempite allora anche la pianura con lo stesso tappeto di morti che avete disseminato sul monte. Non aspettate che i Galli vi sfuggano mentre voi restate fermi. È tempo di andare all'assalto e di gettarsi addosso al nemico? A questo incitamento, i Romani si levarono insieme e fecero indietreggiare i primi manipoli dei Galli. Poi, in formazioni a cuneo, irruppero nel centro dello schieramento. E i barbari, dispersi da quell'urto, privi com'erano di ordini precisi e di comandanti, mutarono direzione, verso i loro compagni. Sparsi per le campagne e spinti dalla fuga fino oltre il loro accampamento, si diressero verso la rocca di Alba, che tra le colline appariva loro come il luogo più alto. Il console non li inseguì oltre l'accampamento: il peso della ferita cominciava a farsi sentire ed egli non voleva esporre le truppe sotto quelle colline occupate dal nemico.
Dopo aver concesso ai suoi uomini l'intero bottino razziato nell'accampamento, ricondusse a Roma l'esercito vincitore, carico delle ricche spoglie sottratte ai Galli. La ferita del console ne ritardò il trionfo, suggerendo anche al senato l'idea di un dittatore, perché vi fosse qualcuno in grado di presiedere delle elezioni durante l'indisposizione dei consoli. Dittatore venne eletto Lucio Furio Camillo, cui fu affiancato in qualità di maestro di cavalleria Publio Cornelio Scipione; Camillo restituì ai patrizi il controllo totale che anticamente i suoi membri avevano sul consolato. In segno di riconoscenza, fu proprio Camillo a essere nominato console grazie al massiccio appoggio dei patrizi: a sua volta egli annunciò che avrebbe avuto come collega Appio Claudio Crasso. Prima che i nuovi consoli entrassero in carica, Popilio celebrò il trionfo sui Galli con entusiasmo da parte dei plebei che, mormorando tra loro, domandavano se qualcuno rimpiangesse la nomina di quel console plebeo.